La sorgente del tempio – Ez 47,1-9.12

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Ez 47,1-9.12

In quei giorni [l’angelo] mi condusse all’ingresso del tempio [del Signore] e vidi che sotto la soglia del tempio usciva acqua verso oriente, poiché la facciata del tempio era verso oriente. Quell’acqua scendeva sotto il lato destro del tempio, dalla parte meridionale dell’altare. Mi condusse fuori dalla porta settentrionale e mi fece girare all’esterno, fino alla porta esterna rivolta a oriente, e vidi che l’acqua scaturiva dal lato destro.
 
Quell’uomo avanzò verso oriente e con una cordicella in mano misurò mille cùbiti, poi mi fece attraversare quell’acqua: mi giungeva alla caviglia. Misurò altri mille cùbiti, poi mi fece attraversare quell’acqua: mi giungeva al ginocchio. Misurò altri mille cùbiti, poi mi fece attraversare l’acqua: mi giungeva ai fianchi. Ne misurò altri mille: era un torrente che non potevo attraversare, perché le acque erano cresciute; erano acque navigabili, un torrente che non si poteva passare a guado. Allora egli mi disse: «Hai visto, figlio dell’uomo?». Poi mi fece ritornare sulla sponda del torrente; voltandomi, vidi che sulla sponda del torrente vi era una grandissima quantità di alberi da una parte e dall’altra.
Mi disse: «Queste acque scorrono verso la regione orientale, scendono nell’Aràba ed entrano nel mare: sfociate nel mare, ne risanano le acque. Ogni essere vivente che si muove dovunque arriva il torrente, vivrà: il pesce vi sarà abbondantissimo, perché dove giungono quelle acque, risanano, e là dove giungerà il torrente tutto rivivrà. Lungo il torrente, su una riva e sull’altra, crescerà ogni sorta di alberi da frutto, le cui foglie non appassiranno: i loro frutti non cesseranno e ogni mese matureranno, perché le loro acque sgorgano dal santuario. I loro frutti serviranno come cibo e le foglie come medicina».


Il brano è tratto dal libro del profeta Ezechiele. Il contesto storico in cui va collocato è quello dell’esilio babilonese, nei duri anni cioè a cavallo tra il 586 a.C., data della caduta di Gerusalemme, al 538 a.C. anno dell’editto di Ciro, il re persiano che in un nuovo assetto internazionale permette ai deportati il ritorno in patria.

Il brano appartiene al penultimo capitolo del libro e riflette un mutamento profondo nella missione del profeta. Se nei primi oracoli, infatti, era la denuncia il tema dominante, negli ultimi l’accento è posto sulla speranza. Dopo che si sono avverati i giudizi divini, Ezechiele contempla per Israele un futuro luminoso. Sorgeranno infatti un Tempio, un culto e una comunità nuovi, rigenerati, che sapranno donare a tutti la pienezza della vita. Di questa, l’acqua è un segno: come essa è capace di trasformare ogni terreno che incontra – anche il più impervio – facendolo diventare rigoglioso, così la forza che verrà da Dio – che abita il Tempio – sarà principio di trasformazione per ogni uomo.

Il segno dell’acqua è fortemente evocativo: richiama la scena del paradiso terrestre (Gen 1-2); l’incontro di Gesù con la Samaritana (Gv 4,1-41); l’acqua che sgorga dal suo fianco squarciato sulla croce (Gv 19,34) e soprattutto l’acqua limpida come cristallo che sgorga dal trono di Dio e dell’Agnello narrata nel libro dell’Apocalisse (Ap 22,1). Proprio su quest’ultima come segno del mondo ultimo vale la pena sostare.

La domanda di una buona preghiera potrebbe essere questa: quale immagine del paradiso coltivo nel mio cuore? Sapere dove sono diretto dà un tono inconfondibile al mio agire. Il pensiero di un futuro buio e perso può rendere le mie giornate annoiate, i miei obiettivi capricciosi, e la mia vita un’angoscia. Al contrario, la speranza di un futuro luminoso può donare vigore alle mie scelte e coraggio instancabile nel portarle avanti. Alla speranza di un futuro luminoso e buono si possono consegnare molti sacrifici, persino la vita, senza paura di perderla.

Vale la pena dunque chiedersi: quale futuro mi attendo?

L’invito è quello di imparare a gustarlo nel cuore come la comunione con Dio, come realizzazione di una pienezza che si è iniziata a costruire qui, con le proprie decisioni e la propria esistenza. È in fondo questo il “regno” che Gesù è venuto donare. Se di questo si vive, allora tutto è reso diverso. E si può persino arrivare a comprendere che perdere la propria vita per causa del Vangelo (presi dalle mille cure per Dio e per gli altri), in verità è salvarla (Gv 12,25).

d. Fabrizio