Il giudizio futuro – Is 65,17-21

Posted by

Is 65,17-21

Così dice il Signore:
 
«Ecco, io creo nuovi cieli e nuova terra;
non si ricorderà più il passato,
non verrà più in mente,
poiché si godrà e si gioirà sempre
di quello che sto per creare,
poiché creo Gerusalemme per la gioia,
e il suo popolo per il gaudio.
Io esulterò di Gerusalemme,
godrò del mio popolo.
 
Non si udranno più in essa
voci di pianto, grida di angoscia.
Non ci sarà più
un bimbo che viva solo pochi giorni,
né un vecchio che dei suoi giorni
non giunga alla pienezza,
poiché il più giovane morirà a cento anni
e chi non raggiunge i cento anni
sarà considerato maledetto.
Fabbricheranno case e le abiteranno,
pianteranno vigne e ne mangeranno il frutto».


Il brano è tratto dalla terza parte del Libro di Isaia, che comprende i capitoli 56-66 e che alcuni studiosi attribuiscono ad un profeta comunemente chiamato Trito-Isaia (= terzo Isaia) e che altri considerano come una collezione di oracoli di provenienza varia. È certo invece il contesto storico della composizione: risale al periodo successivo al ritorno dall’esilio babilonese, e cioè tra gli ultimi anni del VI e i primi del V sec. a.C.

Dopo l’editto di Ciro del 538 a.C., molti degli ebrei deportati poterono fare ritorno in patria, animati da grandi speranze di restaurazione (raccontate soprattutto dal Secondo Isaia nei capp. 40-55). Dovettero però scontrarsi con una situazione difficile: la città di Gerusalemme era diventata quasi deserta; le sue mura distrutte; il Tempio era in rovina; la vita civile era diventata piena di ingiustizie e quella religiosa costantemente in pericolo di culti idolatrici. I rimpatriati dovettero fare i conti con una amara delusione. È in questo clima che maturano i testi del Trito-Isaia, in cui si alternano obiezioni dei credenti e scherni degli scettici, perché il ritardo della salvezza provoca una crisi di speranza.

Le parole del brano, che saranno riprese nel libro dell’Apocalisse (Ap 21,1), invitano a puntare lo sguardo verso un futuro luminoso e possono suggerire come tema della preghiera proprio la speranza.

Occorre esser chiari: quella cristiana non è un azzardo, l’espressione positiva di un rischio. La speranza cristiana è una virtù: una stabile disposizione a confidare nell’esito ultimo positivo della vita, e a farlo perché radicati in Dio. Qualunque cosa accada o qualunque sia stato il terreno (magari accidentato) su cui si è potuta giocare la vita, non ha importanza. In Lui che è il creatore, che ha in mano la storia, e per il quale l’unica cosa che conta è il bene, ogni cosa alla fine troverà il suo giusto posto. L’atto di sperare – che si nutre di fede – significa allora attingere in Dio la pienezza del senso della vita. Che può non finire nei libri di storia, ma certamente in quel Libro (Ap 20,12ss) che Egli conserva con amore in eterno sul suo cuore. E questo basta.

Sotto questo profilo, occorre imparare a non pesare troppo le circostanze in cui si scrive la propria storia. Occorre imparare a vigilare per non ripetere troppo a se stessi: ≪ah! se fossi stato… ah! se potessi questo… ah! se non avessi avuto quello…≫ perché le circostanze sono solo occasioni per qualcosa di più profondo e cioè crescere come persone. ≪Tutto concorre al bene, per coloro che amano Dio≫ (Rm 8,28).

Non è affatto facile credere questo. Per nessuno. Tantomeno viverlo. Ma le vite dei santi (e prima di tutte quella di Gesù finito in croce) mostrano che il successo autentico della vita non si misura con i parametri dell’avere o delle glorie mondane, ma con quelli dell’essere buoni. Si tratta allora, con pazienza ogni giorno rinnovata, di prestare cura alla qualità delle scelte – interiori ed esteriori – che  scrivono tracce di bene in noi e in chi è vicino a noi.

Sostare su questo pensiero può far proseguire la preghiera su almeno tre fronti.

Il primo: la vita non si gioca in un cieco fato, ma in una predestinazione alla comunione d’amore con Dio. La vita è una vocazione. Me ne sono reso conto? Quale la mia?

Il secondo: a chi le domandava che cosa fosse la speranza, Madre Teresa di Calcutta pare che avesse risposto: ≪È la certezza nell’attesa, la fede che si dispiega nel tempo≫. Qual è la qualità del mio confidare in Dio? Gli voglio bene? Ci siamo conosciuti davvero, personalmente?

Il terzo: come mi immagino il paradiso, la pienezza verso la quale sono diretto?

d. Fabrizio